lunedì 14 settembre 2009

Il vecchio e il nuovo sud italia.

Il sud, estremo geografico, periferia economica, oltre la linea dello stato
Un mese di viaggio nel sud Italia, mi ha messo davanti alle sue profonde differenze, ai suoi cambiamenti o ancora alla sua decadente staticità.
Due estremi peninsulari il tacco e la punta, il Salento, l'Aspromonte, un mare che gli unisce, un'antica cultura - ellenica - che li accomuna, i dialetti, vicini entrambi come assonanze al siciliano o al portoghese. La stessa impostazione sociale, il sistema parastatale di controllo, lo stesso amore per la propria identità, eppure nel mezzo tra Puglia e Calabria sembra essersi formato un abisso.
Nelle Puglie, si può rimanere traumatizzati ormai dall'eccessivo e incontrollabile traffico, di turisti piccolo borgesi invadenti, dieci anni di graduale occupazione su una delle terrre più pure e poco contaminate del Sud: il Salento.
Questa terra, sfuggita alla prima nascita e diffusione del turismo di massa post-miracolo economico, rimasto incolume da quetsa malattia fino alla fine degli anni '90, ora né è la più contaminata.
Il motivo di così poco interesse fino a pochi anni fa? Forse per i 200 Km che la distanziano dal più vicino punto di colegamento con il mondo, cioè Bari e più probabilmente perchè non ci si va di passaggio nel Salento; bisogna andarci a posta, a meno che non si voglia intraprendere un viaggio da Capo di Leuca verso Suez.
Oggi l'estremo Sud Est del bel paese Otranto, è invaso da milionoi di formiche che tutto consumano e tutto ammirano, mentre mangiano, pagano, si abbronzano, sporcano, inquinano, inflazionano, usano e abusano.
I prezzi lievitano, tale che la gente del posto fa capire con un "ma ce sta dici" la propira provenienza, al commenrciante di turno che ha aumentato il prezzo del caffè a 1.20€ credendo di essersi temporaneamente spostato nella riviera romagnola.
E la nuova Rimini per eccelenza è Gallipoli, pittoresca e nostalgica nella sua vecchia parte: un'isolotto sul mare, artefice di trafici d'olio da lanterna e mercanzie per tutto il medioevo.
Una Rimini assolata divertente, con spiagge che alla Romagna fanno ridere, ma con un mare incomparabile, non si sa ancora per quanto.
Rivabella, marina della Gallipoli giovane, è un susseguirsi di bagni e discoteche sul mare, una fila di auto perenne dalle 9 di mattina alle 4 di notte, con gente che sborsa 30€ per l'ingresso nelle disco e altri 100€ per sbronsarsi, altri 20€ per una sdraio, altri 2000€ per allogiare, in un sussegurisi di ragazze spaventosamente belle e tirate e di ragazzi abbronzati e pronti a tutto, per divertirsi nelle pazze notti dell' agosto gallipolino.
Così, questa è la terrra del rimorso fin troppo lucida per non approfittare di un bussiness confusionale e infetto, per non accorgersi di stare dissolvendosi nei sogni e desideri dell'italietta vacanziera.
E se pur le notti della taranta puntano a tenere alto l'orgoglio pagano di una radice culturale forte, la realtà e ben altra, il Dio denaro tutto vede e tutto rende suo schiavo.
Si beveva "lu mieru" in compagnia dei propri vecchi, ci si ubriacava e si ballava con loro, loro suonavano e raccontavano, di come Santu Paulu pizzicava le caruse in mezzo alle gambe, loro insegnavano il gusto del pagano ai giovani non ancora smaliziati ai gusti della vita; quella era la civiltà contadina, e li c'era la terra del rimorso.
Cosa ci fanno cari organizzatori del Melpignano show, gli sponsor della Friol, o della RedBull, e quanti, troppi se ne vedono, in mezzo alle sagre dei nostri paesi; avete trovato il modo di intascare, di realizzare profitto, di abbattere la qualità per una quantità da 8 milioni di turisti nel 2009, per il vostro esercito di affitta camere B&B, per le vostre amministrazioni comunali pronte a tutto per un "piatto di lenticche" a privatizzare beni comuni come le spiagge, vi siete assoggettati al piccolo borghese presuntuoso e ipocrita che dal nord venera e umilia le nostre bellezze?
Sbandierate un identità culturtale locale, per succintamente inserire il virus della globalizzazione e dell'omologazione nel Vostro amato Salento del mare sole e vento.

Vi parlerò ora della seconda zona del mio viaggio l' Asapromonte, il reggino, la punta d'Italia.

L'assurdo regna per le strade di questi luoghi, più ci si avvicina in autostrada, più un senso di rabbia e di svilimento, colpisce i conterranei emigrati al nord che rientrano per le ferie.
Chi ci va per la prima volta è invece pervaso da una strana curiosità incredula, e un irrefrenabile voglia di capire com'è possibile una situazione territoriale come quella che gli si sta spiegando davanti ai suoi occhi.
L'anarchia urbanistica e edilizia, imperversa dal monte Pollino allo stretto di Sicilia, in una delle regioni più a rischio terremoto della penisola, tutti hanno fatto tutto quel che non potevano fare, stato compreso.
Lo schock primo è dato proprio dalle opere statali, difatti su uno dei litorali più unici e belli d'Italia, paragonabile per il contrasto mare monti solo alla Liguria, bè, su questo patrimonio naturalistico, approdare in spiaggia è pericoloso, difficile, quantomano inconsueto.
Su tutta la 106 statale ionica, due lunghissime linee parallele, ferrovia e statale appunto, dividono le città, i paesi dal mere.
Un taglio netto, fisico ancor più che concettuale, tra terra e mare, e così per andare in spaiggia bisogna attraversare sotto passaggi abbandonati da decenni , zeppi di monnezza e alti 1.50m cioè giusto l'altezza per il passaggio per una berlina, tralasciando la follia omicida degli autisti indigeni sulla 106, (strada con il più alto numero di vittime annuali in Italia), il panora mozzafiato per molti aspetti, è costantemente squarciato da giganti scheletrici in cemento, interi villaggi con villette a schera abbandonate, il 70% delle case abitate senza intonaco, un disastro.
Chiedo a qualcuno come mai tutto ciò, perchè sembra di essere a Beirut guardando Reggio Calabria dall'alto, perchè i calabresi hanno deciso di respingere tutto ciò che di bello la loro terra gli offriva.
Le risposte sono nello sviluppo, nella crescita incontrollata e non mediata di una etnia (quella calabra) che da montanara si trasforma in cittadina, da pastorale in terzo settore, da giusto a sbagliato, da antico in moderno.
In 30 forse 20 anni, tutto è cambiato, senza graduazione, erano gli anni '70 quando Vittorio De Seta girava il suo documentario, in una Calabria staccata dal mondo, lontana e viva in un ambiente tribale e severo, i monti della sila quelli dell'Aspromonte, di cui il suffisso è emblematico, davano a queta regione un'aurea di mistero.
Negli anni '50 l'agronomo-economista Manlio Rossi Doria definisce la Calabria come l'osso del Sud, identificando la polpa nelle Puglie, perchè appunto fatta di montagne a strapiombo sul mare, e impossibile da domare ai fini agricoli.
E così continuando a capirci qualcosa, scopro che qui, soprattutto sulla ionica, ogni paese sul mare ha il suo doppio in montagna, i Ferruzzano, Bova, Palizzi, della costa hanno i Ferruzzano vecchia, Bova vecchia, ecc, sulle montagne, a 15 km di distanza, ma a mezz'ora un'ora di macchina, viste le difficoltà del percorso.
La particolarità è che gli incantevoli paesi vecchi sono... abbandonati. Più nessuno risiede in questi splendidi sobborghi appenninici, tutti si sono buttati sul mare, negli ultimi vent'anni tutti si sono dati all'America, andando sulle coste e costruendo 3-4 anche 10 appartamenti l'uno sopra l'atro, di cui solo il piano terra è finito, glia altri serviranno a i figli... ma intanto i figli trentenni, quarantenni sono andati via, persi nelle necessità dell'immigrazione di massa dal Sud al Nord, e lì rimangono solo gli scheletri decadenti, grigi, sgretolati, a ricordarne l'ombra.
E' quetsa la Calabria, ferita abbandonata, la punta distante anni luce dal tacco (Salento) che ha di fronte, quella di un progresso mancato, di un turismo malvisto che qui scarseggia, che qui c'è solo di passaggio. Tutti spingono a che niente cambi, e, gli unici paesi che rimangono sui monti senza il loro doppio moderno sul mare, sono i custodi della cultura tribale, familistica, d'onore; e sono Locri, San Luca, Africo; che trovano il loro modo di entrare nella modernità a Gioa Tauro, in quel porto che potrebbe raccontare buona parte della storia geopolitica europea e non solo, la storia del dopo-caduta muro di Berlino, una storia segreta criminale che poco ha a che fare con la Calabria.
Ma quello che sto cercando in quetso viaggio è qualcosa di vero, di puro, di incontaminato e sono sicuro che il sud può ancora offrirmelo, e così incaponendomi lo trovo, si chiama Rogudi.

Sono le 16 del pomeriggio, quando dal litorale, decidiamo di avventurarci su per l'Aspromonte con il mio Doblò, per cercare di raggiungere Rogudi vecchia, anch'essa con il suo dopppio sul mare, anch'essa abbandonata dopo l'alluvione degli anni 70.
I primi 2-3 km si affrontano tranquillamente, ma poi ci si accorge che più si sale , più tutto diventa precario, diventa precaria la presenza della civiltà, di fatti poche pochissime case si incontrano sul percorso, diventano precarie le starde, sempre più strette, dissestate, a volte sterrate, diventa più precaria la natura, spesso ci capita infatti di trovare pietre di notevoli dimensioni, sul percorso, reti e pali di contenimento piegati nel contenre un masso grande come la macchina caduto chissà da quale altezza, e ancora questa totale solitudine, l' unica presenza è il bestiame totalmente libero che esce dalle case abbandonate attraversando la strada, tutto in questo paesaggio lunare, brullo, scevro di vegetazione e caratterizzato da alte punte come forme di dita, che si ergono dentro i precipizzi, che accostiamo su una strada senza guardrail, e che partendo da decine forse centinaia di metri più in basso, ci sorpassano in altezza di poco.
Bisogna scollinare a 1000m circa e poi scendere giù per una discesa di cui accorgeremo solo dopo quanto sia ripida e con questa andare a valle, Roghudi sembra essere lì di fronte, ma sta imbrunendo, non ce la sentiamo di continuare e torniamo indietro.
Sconfortati dalla sconffitta con l'Aspromonte, il giorno dopo ci diamo un programma, e così partendo molto più presto e intenzionati tutto decidiamo di rifare la traversata.
Arrivati con il presunto Roghudi di fronte, scendiamo fino avalle per poi risalire su una salita che sarà stata del10% come pendio, e riuscire a entrare in macchina nel paese fantasma: sul fianco della montagna terrrazzato e a strapiombo questo paese vuoto fatiscente, con i vecchi segnali anni'50, del telefono, dell'alimentari, sembra essere il nostro ricordo di una società andata, la strada che percorriamo in macchina ha le costruzioni solo da un lato, con un cemento sfaldato, con porte e finestre aperte che lasciano intravedere i vecchi ammmobigli, il silenzio totale, il nulla e l'abbandono e questa continua ossessione di essere totalmente soli.
A un certo punto però scorgiamo in fronte a noi un vecchio con sua moglie, che sono lì dietro la curva, gli andiamo incontro come fosse il salvatore, eravamo sinceramente preoccupati per di essere nel nulla e abbandonati a noi stessi, e il solo pensiero di dover rifare quella strada in salita ci imparanoiava duramente. Così gli chiediamo, come si fa a tornare indietro se c'è un'altra strada, lui ridendo ci offre delle pere, ci indica una fontatna di acqua sorgente buonissima, poi ci spiega che quello non è Roghudi, ma un altro paese abbandonato, che per raggiungere la nostra meta bisogna continuare per quella viuzza tra i monti che noi credevamo finisse lì, e che anche se più pericolosa geologicamente, era più frequentata da pastori e contadini, quindi meno preoccupante, lo ringraziamo, e dopo aver fatto un giro tra la decadenza e i cinghialetti neri di quel paesino, riprendiamo il nostro viaggio verso Roghudi.
Dopo pochi tornanti che davano nel vuoto, ci accorgiamo ce giù in una specie di vallata creata da una fiumara ci sono delle case, affacciandoci cautamente dalla strada finalmente lo vediamo: un borgo con un centinaio di cae che a strapiombo scendono verso l'incrocio del letto di due fiumare... spettacolare, sembra il "Cristo si è fermato ad Eboli" di Carlo Levi.