lunedì 21 ottobre 2013

Prezzo e Valore della Cultura


I lavoratori del Teatro Comunale di Bologna 19/10/2013

La sensazione di lavorare in uno stato di totale precarietà, non ha mai abbandonato i lavoratori della cultura, come sentirsi usurpatori e opportunisti in un mondo che qualcuno addita come privilegiato, senza di questi privilegi avvertirne la consistenza, tantomeno la sicurezza, come sentirsi parte della storia in una nave che lentamente affonda e imbocca acqua, e tutti lì a sfangare secchiate per recuperare tempo, in una frenesia ostinata e fatalista al contempo, come combattere con le grandi pale dei mulini per rendersi conto che non sono mulini, ma è la realtà che ti scaraventa addosso la sua cruda forza.
Ministro Bray con Matteo Renzi
"Diamo valore alla cultura" è la nostra lotta, quella di oggi, perché tante finora ne abbiamo fatto per rimanere a galla, con altri nomi, altre vicende, ma con lo stesso presupposto, evitare il rischio di estinzione per la Cultura musicale e teatrale "in questo benedetto assurdo bel Paese". La parola che più denota l'attuale e in larga parte condivisibile legge 112 ex decreto "Il valore della Cultura" a firma (almeno per l'art. 11 Comma 1) Bray/Renzi è la stessa che noi rilanciamo in "Diamo Valore alla Cultura" e cioè la parola "Valore".

In altri tempi e con altre classi dirigenti, avremmo affrontato la questione nei termini posti dal Guy Debord de "La società dello  spettacolo" e cioè sulla differenza tra "prezzo" e "valore", con una critica incisiva al sistema di produzione culturale, e alla degenerazione decadente che porta l'assimilazione dell'uno con l'altro, in tempi dove lo si poteva ancora fare... Ma oggi, nonostante il Debord di cui sopra sia assegnato a tutti i programmi universitari di quelle false discipline che vanno sotto il nome di Scienze delle Comunicazione, oggi si fa fatica a parlare di cultura e riconoscerla in quanto tale, si fa fatica a capirne i cardini e lo scopo sociale, storico, civile, politico, in una parola... culturale. Quando non svilita a prodotto di avanspettacolo, a genere atto al divertimento, a passatempo, a svago, a effimero usa e getta, alla sua matrice meramente spettacolare, quando non attaccata in quanto sperpero di risorse sacrificate al consenso popolare o meglio populista, del tribalismo etnico religioso di turno, quando non additata in quanto problema per l'aumento delle accise sui carburanti, nel migliore dei casi su esposti, la si giustifica legandola indissolubilmente alla parola Welfare. Non starò a soffermarmi sull'associazione retorica quanto pressapochista delle due parole, a quanto questa assimilazione sia abusata e svuotata, a quanto difensiva sia la prospettiva di tale associazione, a quanto debole sia il giustificare l'una con l'altra. Si è passati dalle eccessi del positivismo russo,  della rivoluzione culturale, nel dare risalto e valore alla cultura, al doverne difendere il valore nella società dello spettacolo.  Oggi sembra che la Cultura non possa avere un'autonomia propria, che viva e possa sopravvivere solo se legata al turismo, al welfare, al marketing e a infinite chiacchiere di contorno, da parte di speculatori e giannizzeri vari.
Polverini-Nicosia-Nastasi

In balia di eccessi di egocentrismo, e condannati alla distribuzione perenne dell'industria dello spettacolo, inseguiamo gli assessori pop, i direttori artistici inebriati dal loro ego, e una politica da p minuscola insediata in ogni dove.
Dalla Rai alle fondazioni culturali insediate sul territorio italiano, il sistema di welfare/polick si inserisce nei Cda, lottizzandoli dalla prima costituzione, il più delle nomine di dirigenti direttori artistici e affini è a discrezione di persone che non per forza, a volte per niente, conoscono l'istituzione che andranno a governare, le nomine dunque per motivi di delega tout court da parte dei politici, sono sempre le stesse che circuitano e vanno da teatro a teatro, molto più delle produzioni che invece si vorrebbe far circuitare con la legge 112,  i registi, i cantanti, gli scenografi, i direttori d'orchestra, i solisti, sono al loro volta legati a questo circolo, ermetico, conservatore, costoso e spesso fallimentare.
L'economia della cultura è molto spesso gestita allo stesso modo, i cosiddetti privati che dovrebbero investire in cultura difatti non esistono, né sono mai esistiti,  sono un invenzione auto-giustificante della classe politica degli anni novanta, che nel privatizzare grosse fette dello stato industriale e dei servizi, ha privatizzato anche il settore culturale, facendo danni irreparabili e quantificabili in debito. Non starò qui a dirvi a quanto mld€ ammonti il debito di Alitalia, ne tantomeno a piegarvi come la Telecom sia passata da essere la più grande azienda di telecomunicazione europea quando era Sip a titolo spazzatura oggi. Quello che posso dirvi è che il patrimonio dei teatri lirici italiani oggi ha più di 350mln€ di debiti, il patrimonio museale e quello monumentale non è messo meglio, d'altronde basta guardarlo.
Il disimpegno del pubblico nei finanziamenti al comparto dagli ani '90 ad oggi è stato lento graduale e inesorabile, il privato non è mai subentrato, gli unici privati a subentrare sono state le banche a mezzo delle Fondazioni bancarie, creando un binomio di cui oggi vediamo i frutti.
La storia delle Fondazioni è una storia a se, e più che delle fondazioni lirico-sinfoniche forse sarebbe il caso di parlare delle fondazioni bancarie, per capire il perché oggi molti teatri sono in perenne sbilancio, anche di questo parla la legge 112, e mentre sono qui a cercare fino in fondo il senso della parola anatocismo, mi rendo conto che per l'ennesima volta, il problema per i teatri, sono i dipendenti.

Il problema suona sulle corde di violino, nei pizzicati delle arpe, negli ottoni e nelle percussioni, il problema è nella sacca del martello dei macchinisti, nei pennelli degli scenografi, nei contrappesi del palcoscenico come nei leggi della buca, nelle penne degli impiegati, nei proiettori e nel consolle degli elettricisti, nei mixer dei fonici, nelle scarpe dei calzolai e nelle forbici delle sarte, il problema è nelle persone che rappresentano da 500 e più anni mestieri e professioni esportate in tutto il mondo, e che oggi rappresentano il prodotto principale della produzione culturale  il problema non è nel teatro, il problema è il teatro.



Il problema non è il prezzo... ma il valore !



Maurizio Tarantino