giovedì 6 novembre 2014

Dal Valore della Produzione al Valore della Cultura. Ovvero precarietà di un modello gestionale.

Viviamo tempi di profondo cambiamento, cambiamento negli stili di vita, nelle aspettative sul futuro, nella possibilità di pensare, progettare, realizzare. Tempi in cui una metamorfosi lenta e inesorabile, cambiano i connotati dell'economia, del welfare e dello stato sociale. Tempi in cui, aspettative più o meno evanescenti, si ripongono in nuove forme e nuovi concetti, nuovi slogan e nuova terminologia, il linguaggio difatti è spesso sintomo e simbolo del cambiamento. Così se nella produzione il termine impresa in senso classico, va lentamente cedendo il passo al ben più attraente start up, nella produzione culturale, si fa un gran parlare, di imprese culturali e industrie creative. E’ un segno dei tempi, evidentemente legato al fatto che la contingenza economica e la dottrina che ne scaturisce, basa sui processi produttivi e di consumo, la sua ragion d’essere. Pertanto, ove prima la Cultura insegnata e prodotta, aveva una chiara accezione umanistica, legata alla produzione di significato, alla formazione dell’individuo, e plasmando era a sua volta plasmata dalle dinamiche socio culturali di una determinata fase storica, oggi invece viene meno tale presupposto, lasciando intravedere una produzione culturale, sempre più tecnico scientifica, legata nel suo essere, al consumo ludico, turistico, d’intrattenimento, da una parte, e dall'altra, alla parametrazione basata su calcoli prettamente economici e di bilancio, di entrate e uscite, appunto nel senso imprenditoriale e industriale del concetto. Come se, -per parafrasare il nome di un recente decreto sulle politiche culturali- , sia il Valore della produzione (la prima e più importante voce dei bilanci delle imprese) a determinare il Valore della Cultura, e che quest’ultimo abbia ragione di esistere solo in funzione del primo. In breve, per induzione il calcolo è presto fatto, se la produzione del significato (valore della cultura) è sostenibile al pareggio del bilancio (valore della produzione), ha ragione di esistere, altrimenti è destinato a fallire. Va da se che in una società caratterizzata da un consumo irresponsabile schizzofrenico viziato da simboli pubblicitari ecc. i consumi culturali richiesti da questo tipo di domanda, sono frivoli, ludici, spettacolari, e più che formare l’individuo, tendono a sedarlo, a renderlo succube, seguendo dinamiche legate appunto al consumo, di creazione del bisogno e di assuefazione. Nulla di nuovo, se non il perpetuarsi di del dogma, secondo cui, la produzione culturale, avrà motivo si sussistenza, solo ove sarà in grado di creare indotto, e poco importa se il significato veicolato, sarà creativo, formativo, piuttosto che nichilista o distruttivo. Sempre per tali ragioni, nei calcoli dell’indotto del settore culturale, oggi entrano le imprese culinarie, la moda e la produzione del lusso, le agenzie pubblicitarie, moltissimi segmenti dell’economia che con palesi forzature vanno a inserirsi in settori non propri.

Sono considerazioni generali, oggi considerate intellettuali e démodé, certo è, che chi decide di chiamare “il Valore della Cultura” un decreto del MIbac, fa un’azione riconoscibile, da importanza a un preciso termine e a un preciso concetto, il cambio di passo successivo dell’attuale legislatura, inserisce invece il concetto di "Bonus" prima del termine "Art" facendo un'altro tipo di azione. Non si intende certo qui fare considerazioni su decreti che entrambi hanno valide ragioni di innovazione, necessarie e da tempo attese, come gli sgravi fiscali sul mecenatismo, recentemente introdotti. E’ solo per seguire soggettivamente il filo logico del linguaggio che cambia, presagendo un cambio molto più profondo . Un cambio a volte traumatico, e devastante. In alcuni grandi teatri, la produzione, dunque il prodotto, si lega direttamente alla forza lavoro. Qui legare il concetto stringente di pareggio di bilancio, al valore della cultura, è un concetto pericoloso, che ricade direttamente sul prodotto, perché il prodotto è identificabile con l’artista, il maestro. Essendo il costo del personale la voce più onerosa delle uscite nel bilancio, per tutti i teatri, ed essendo esso stesso la materia prima, già finemente lavorata e messa in offerta al pubblico, incidere sui costi per rispettare i ricavi, genera uno scadimento fino all’estinzione del prodotto stesso. Come se, una griffe di moda per poter esistere, non potesse più produrre capi di qualità, o non potesse più produrre. Per quanto necessarie e stringenti siano azioni di ristrutturazione nel settore, visti ad esempio i debiti sproporzionati delle Fondazioni Lirico Sinfoniche.
Il rischio implicito nel voler imprimere una sorta di Fiscal Compact dei Teatri, con tanto di fondo di salvataggio, e troika ispettiva, è quello dell’annullamento della Valore della Cultura. Della lenta perdita di un patrimonio immateriale immensamente più importante di un Ministero, che ne decreta inconsciamente la fine. Non è certo la critica a questo o quel Ministro più tosto che a un direttore generale. È la critica a un modello di commistione pubblico privato, le fondazioni, che ha rivelato negli ultimi 15 anni, tutti i suoi devastanti limiti. Un modello per cui oggi i nodi al pettine, emergono e trovano da parte della politica e di buona parte dell’opinione pubblica, un capro espiatorio, nei lavoratori, nei sindacati, che pur avendo anch’essi le loro colpe, non possono essere considerati la radice del problema. Fa sorridere per esempio, il fatto che non ci si interroghi, sui così detti privilegi di questi lavoratori in maniera bilaterale. Il compito del sindacato è stato acquisitivo in termini di diritti, dalla sua nascita, fino a pochi anni fa, oggi è palesemente difensivo. Dunque se i sindacati e i lavoratori da essi rappresentati, hanno acquisito diritti insostenibili negli anni, a volte risibili, e ingiustificati, ne hanno colpa solo in minima parte, avendo svolto essi la loro ragion d’essere.
Il punto è, che gli imperdonabili errori gestionali, sono stati fatti in gran parte da chi quel diritti poteva riservarsi di non concederli, e invece lo ha fatto, per suo personale interesse. Dov’erano i sovrintendenti, i dirigenti, dov’erano soprattutto in consiglieri dei Cda e i presidenti delle fondazioni liriche, quando si stringevano integrativi fallimentari? Perché la parte gestionale non è sul banco degli imputati, come si sta facendo invece con le orchestre? Nessuno ha rilevato il fatto che i Cda di queste fondazioni, sono stati frutto di lottizzazioni politiche, che sono stati fasulli organi volitivi, in cui era più l’attenzione alle rendite di posizione e al prestigio dei consiglieri, che il loro effettivo ruolo svolto in termini decisionali. Di quanto i rappresentanti dei così detti privati, per lo più fondazioni bancarie, anno taciuto, hanno approvati, sono stati causa di mala gestione, cedendo a ricatti di lobby, per preservare lo propria posizione, nessuno né ha parlato. Di contro spesso capita di legger sui giornali alcuni di essi pontificare e incriminare i sindacati/lavoratori, di scarsa lungimiranza. Come se le gestioni siano state in capo ai dpendenti, e non hai dirigenti, come se le decisioni siano state in capo ai sindacati, e non ai Cda e ai sindaci presidenti delle Fondazioni. Se questo è successo, è un fenomeno prettamente italiano, ha radici antiche, ed è imputabile quantomeno in senso bilaterale, alla gestione, come alle parti sociali. Oggi il sistema culturale italiano è precario, prim’ancora che i lavoratori, sono precarie le istituzioni, le fondazioni, le associazioni, come nelle partecipate, il problema principale, non è nel dover imporre austerità alle strutture di produzione culturale, mortificandole e trasformandole fino all’estinzione, per meri calcoli di bilancio. Non è puntando alla produzione di massa, e alla standardizzazione e industrializzazione del prodotto culturale, che avremmo assolto a un compito di buon governo. Sarà piuttosto rivedendo i modelli gestionali e amministrativi che forse preserveremo il valore della Cultura e non solo il valore della Produzione.

Maurizio Tarantino